Anatomia di una caduta



Sembra di essere dentro le pagine di un libro di Durrenmatt, invece è un film per il quale non a sproposito è stata usata la parola capolavoro. Dopo la palma d’oro a Cannes e il reminder alla Festa del cinema di Roma, “Anatomia di una caduta” di Justine Trier finalmente arriva nelle sale italiane con la fama di thriller psicologico – che ci sta, acchiappa ed è un’astuzia pubblicitaria comprensibile contro il rischio che un film con aura di femminismo e suggestioni letterarie potesse allontanare un pubblico che in gran parte non ha mai troppa voglia di tematiche impegnative e soprattutto di farsi avviluppare in pensieri angosciosi. Aggiudicato, dunque: vendiamolo (come appare nel trailer) nello scomparto dei gialli, o meglio noir, essendo francese. Invece poi dalla prima scena si capisce che c’è ben altro. Eppure oltre ore due scorrono senza che nessuno pensi di essere stato buggerato o lamenti lezioncine o si senta trascinato in una guerra tra sessi. Anche perché la regista sa il fatto suo e dosa benissimo quello che vuole raccontare e il modo in cui lo fa concedendo qualche colpo di scena al plot giudiziario che il pubblico adora e qui fa da cornice necessaria all’obiettivo mainstream, che pure esiste e non è sminuente ammetterlo.

Nella storia ci sono due scrittori, sposati e con un figlio. Lui francese, lei tedesca. Entrambi di talento, ma lei ce l’ha fatta, pubblica con regolarità ed è ormai un nome noto mentre lui colleziona fallimenti e frustrazioni. Una mattina – annunciata con la tensione da brividi di una musica a volume altissimo che lui fa andare quasi in loop per disturbare un’intervista di lei ovviamente interrotta per eccessivo rumore – l’uomo cade dalla soffitta della baita immersa nella neve dove la famiglia vive, in una località di montagna vicino Grenoble. A trovare il corpo è il figlio undicenne, cieco a causa di un incidente, e guidato nel punto esatto dal suo cane guida. Dopo i soccorsi, la constatazione del decesso e l’autopsia, quello che accade da questo momento in poi è un’autentica e impietosa vivisezione della coppia, da cui emergono prevaricazioni, violenza verbale, accuse reciproche e un nucleo rabbioso di rancore, sensi di colpa e sofferenza, pronto ad esplodere. 
E’ un matrimonio infelice molto diverso da quelli a cui siamo abituati: la donna si prende i suoi spazi, forse pure troppi, è realizzata e porta avanti le sue aspirazioni personali e artistiche anche trascurando la cura della casa e del figlio. I carichi non sono equamente divisi ed è lui a dover ridurre il suo orario di lavoro per occuparsi del ragazzo mentre lei è fuori per presentazioni ed eventi pubblici. E’ lui a non trovare il tempo per scrivere il suo romanzo perché deve accompagnare il figlio a scuola. E anche la loro intesa sessuale non è più quella del passato, tanto da prevedere tacite distrazioni extraconiugali che però tra i due solo lei ha concretizzato con un’esperienza lesbica. 
 Vista dall’esterno, questa donna non è una brava moglie ed è una sorta di madre degenere. I dubbi dei medici sulla caduta la trasformano in imputata per omicidio. Perché in questo microcosmo di relazione al contrario, l’uomo relegato in casa aveva iniziato a mostrare insofferenza ed era pronto a imporre una nuova distribuzione dei carichi familiari che avrebbe costretto la donna a perdere la sua assoluta ed esclusiva possibilità di dedicarsi alla carriera. Per questo lei lo ha ucciso, la condanna collettiva è una certezza e non attende la decisione di un giudice.

Dentro e fuori il tribunale assistiamo a una chirurgica anatomia di quella caduta, che diventa parallela osservazione scientifica di un matrimonio coacervo di sentimenti negativi. Lei non è una santa, anzi riesce anche ad essere antipatica nel suo algido distacco emotivo da eventi scioccanti come un precedente tentativo di suicidio del marito. Ed entrambi si sono fatti carognate, senza che vittime e rei siano su due fronti sempre netti e distinti (l’utilizzo pur annunciato di un’idea letteraria del marito; la decisione di vivere in Francia, paese di lui, ma isolati dal mondo e parlando inglese in una terra di mezzo linguistica). Si amano e il sesso con altri è uno sfogo senza importanza. A dividerli è l’unica cosa che invece avrebbe potuto unirli, la scrittura. Non sappiamo cosa sarebbe accaduto se l’autore famoso fosse stato lui, se lei lo avrebbe sostenuto senza rinunciare a scrivere di suo. Sappiamo però che in una relazione nella quale si hanno gli stessi obiettivi e a raggiungere risultati brillanti è la donna, questo scenario è poco sostenibile dall’uomo. Il ruolo del first gentleman è quasi sempre avviluppato in rovi di invidia, livore e senso di ingiustizia. Anche quando non lo si dice, c’è una subliminale percezione che dall’altra parte sia stato rubato qualcosa, che un qualunque vertice non sia il posto di una donna e sicuramente non più in alto di un uomo – no, lei deve stare un passo indietro, dalle nostre parti lo abbiamo sentito dire una manciata di mesi fa.

Il femminismo di questo film non è soltanto nella denuncia di una cultura sessista che è ancora lontana dall’essere debellata. La scrittrice famosa è una tiranna, una strega da mandare al rogo. Il marito è stato sfruttato, tradito e infine eliminato perché non serviva più e poteva dare fastidio. E poco conta l’esito del processo (non farò spoiler). Questa storia ci ricorda che cose del genere di solito accadono alle donne e fa vedere come sia stare in questi panni. Dover rinunciare al lavoro, dedicarsi ai figli. Fare un errore che ha causato la rovina nella vita di tuo figlio e dovertene assumere tutta la responsabilità. E ci ricorda anche quali conseguenze, terribili e inesorabili, possa avere questo inedito equilibrio (o dislivello) tra i sessi nella psiche di un uomo. Per questo ogni parola del film è ponderata, fondamentale, rivelante. Tutto è costruito sulle parole – pronunciate, registrate, scritte.
In tempi di pesche per divorziati, l’ago della bilancia nella vicenda è infine il figlio, bersaglio del malessere dei genitori e costretto a conoscere le pieghe più intime e le verità più sconvolgenti del loro conflitto. Non è un caso che sia lui, un undicenne che ha perso la vista ma sente le cose invisibili, a risolvere il mistero della morte del padre. La prova schiacciante che porterà in aula non è scientifica ma percettiva. Eppure incontestabile: è accaduto così perché lui ha capito.
Se ancora non l’ho detto, Anatomia di una caduta è un film molto bello (bravissima la protagonista Sandra Huller, perfette la regia e una fotografia dominata da un bianco abbacinante e infernale in contrasto con colori senza luce, dialoghi mozzafiato). Per la regista Justine Trier questo film è stato una scommessa, perché lo ha scritto con il marito e collega Arthur Harari (più giovane e già attore in altri suoi film). Ma a vincere la Palma d’oro è stata solo lei. Una meravigliosa terapia di coppia, dove il terzo incomodo è la scrittura. Molto più pericolosa di qualsiasi amante, ma finora a loro è andata bene.

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